L’arrivo del virus COVID19 ci aiuta a porci delle domande; in particolare su cosa è vivere, che cosa è sopravvivere, e come questo è in rapporto con le scelte che facciamo per tutelare la nostra salute. Invita tutti a riflettere su quali sono i valori che orientano la propria vita, e in base ai quali operiamo le scelte in una società sempre più tecnologica e medicalizzata.

vivere o sopravvivere?

Byung-Chul Han, che da molti è considerato il più importante filosofo vivente, ha scritto ad inizio aprile un articolo nel quale, oltre a raccontarci come funziona in Asia il controllo totale degli individui grazie agli strumenti digitali,  ci dà una lettura della reazione emotiva che il mondo contemporaneo ha nei confronti del virus COVID19, del vivere e del sopravvivere:

Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il vivere bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza peraltro è avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto.

Se il nostro valore più alto è sopravvivere e non vivere, ecco che allora non ci importa se una scelta o un comportamento riduce la nostra gioia di vivere, può essere per noi secondario persino se riduce la nostra salute.
Poiché riteniamo che possa aumentare la nostra sopravvivenza facciamo una scelta che magari ci dà un po più di giorni, senza soffermarci sul fatto che quel tempo lo passeremo nella continua sofferenza, o attaccati a delle macchine,  imbottiti di farmaci che ci permettono forse di sopravvivere sì più a lungo, ma sufficientemente malati da garantire profitti alle multinazionali del farmaco.

E in questa “necessità di sopravvivere ad ogni costo” non facciamo caso al fatto che per aumentare le nostre probabilità di sopravvivenza siamo disponibili a rinunciare persino a ciò per cui le generazioni prima della nostra si sono battute e spesso sono state uccise: il diritto alla autodeterminazione delle proprie scelte, la libertà di decidere per la propria vita e per la propria salute. La libertà di stare accanto a chi amiamo nella salute e nella malattia, o nella morte.

Byung-Chul Han ci propone di chiederci se tutto questo sia un bene. Siamo sicuri che per proteggerci da ciò che potenzialmente minaccia la sopravvivenza, val la pena sacrificare volontariamente ciò che rende la vita degna di essere vissuta?

la nuova demonologia scientifica

Questo modo di rapportarsi con l’incertezza della vita, con la malattia e la sofferenza, con la morte, si è consolidato negli ultimi decenni, grazie anche a una visione scientifica della persona sempre più specializzata e parcellizzata, sostenuta da progressi tecnologici che permettono di vedere sempre più lontano e sempre più nel piccolo, ma non sono stati accompagnati da un pensiero etico e da una visione altrettanto profonda.

Alcuni anni prima di morire, il grande filosofo e mistico Raimon Panikkar scrisse queste parole:

La critica tradizionale al paradigma scientifico sostiene che esso non lascia spazio a Dio; al che gli scienziati rispondono che non ce n’è bisogno. Di contro, la mia critica al paradigma scientifico afferma che essa non lascia spazio per l’Uomo. Il grande assente nel mythos scientifico è l’Uomo. Vi sono una quantità di Dei, sotto forma di buchi neri, galassie e infinità grandi e piccole, limiti, soglie e  via dicendo. I demoni sono legioni: le scienze biomolecolari forniscono una virologia sterminata quanto la demonologia medioevale, e l’uomo moderno, per quanto “medicalizzato”, si muove impaurito e tremante in mezzo ad un mondo invisibile di germi e virus di ogni genere. (Raimon Panikkar, Il ritmo dell’essere, Jaca Book, pag. 513)

Oggi, mentre ci propongono applicazioni digitali o vaccini dalla dubbia efficacia, che ci aiuteranno forse a sopravvivere – ma certamente non a vivere – nel futuro prossimo a causa del COVID19, le parole di Panikkar sono ancora terribilmente attuali.

Vi invito alla lettura dell’articolo “La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza”,  auspicando il ritorno della centralità dell’Uomo, nella scienza e nella società, con le parole dell’autore:

Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è  solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana. Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini – per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.